Better Call Saul e il complesso d’inferiorità

PREMESSA bcs

Saul Goodman è indubbiamente il personaggio preferito dalla maggioranza dei fans di Breaking Bad. La sua popolarità è tale che ha spinto il suo creatore Vince Gilligan a dedicargli una serie tutta sua. Essendo collocata temporalmente diversi anni prima dalle vicende di BB, in sostanza si tratta della storia di Saul Goodman prima che diventi Saul Goodman. Sì, perché in questa serie il Nostro si chiama Jimmy McGill ed è un giovane avvocato che di Saul ha certamente l’eloquio e la faccia tosta, ma che difetta – momentaneamente – del suo proverbiale pelo sullo stomaco, oltre che del suo status di uomo di successo. Di Slippin Jimmy (nomignolo poco edificante con cui veniva identificato in gioventù) scopriamo da subito che, nonostante il suo lavoro di legale, deve sbarcare il lunario vivendo e lavorando nell’angusto retrobottega di un centro estetico cinese e che inoltre si deve occupare di suo fratello maggiore, anch’esso avvocato (tra i più importanti in circolazione), ma che ha lasciato a tempo indeterminato la poltrona del potente studio legale HHM a causa di una misteriosa malattia che lo obbliga a restare chiuso in casa al riparo da ogni fonte di energia elettromagnetica.

COSA MI È PIACIUTO

Essenzialmente ogni riferimento di BCS a BB. Senza stare a elencare ogni singola connessione tra questa serie e il suo padre putativo, direi che questo si tratta del principale punto di forza (e anche il suo limite, come vedremo dopo). I momenti migliori giungono sempre nel momento in cui appare qualcosa che ricorda BB, come ad esempio uno snodo narrativo e situazionale che in poche immagini riesce a trasportarci nelle aride atmosfere dell’Albuquerque di Walter White; così come quando vediamo materializzarsi nello schermo un “vecchio” personaggio come Tuco Salamanca (e la sua banda) o il mitico Mike Ehrmantraut (che invece è il mio personaggio preferito), vero coprotagonista della serie, a cui viene dedicato un intero episodio che ci svela qualcosa sul suo passato. Oltretutto non bisogna negare la bravura di Bob Odenkirk nei panni di Jimmy, un ruolo talmente adatto a lui che difficilmente riuscirà a scucirselo di dosso nei prossimi anni.

COSA NON MI È PIACIUTO

Secondo me il problema di BCS risiede nella sua natura di spin-off. Pur avendola nel complesso apprezzata come serie, mi sono chiesto spesso, mentre la guardavo, se BCS a uno spettatore che non conosce BB (posto che l’ipotesi che esista qualche appassionato di serie tv americane che non ha mai visto BB sia semi-impossibile) potrebbe mai piacere. Ho provato a immaginare me stesso ignaro di BB e di tutto quello che gli gira attorno, con il mio immaginario completamente sgombro da Walter White e soci e tutto ciò che ne consegue. La risposta è che probabilmente no, BCS non mi sarebbe piaciuto perché sebbene ci siano momenti veramente ottimi, la storia molto spesso si trascina in una trama non esattamente tra le più avvincenti che mi è capitato di di vedere, soprattutto nei momenti (e ce ne sono diversi) in cui i toni si rifanno al legal-thriller (genere che non ho mai amato). Non sono sicuro, in definitiva, che BCS possa esistere come opera autonoma e indipendente, ma che debba, al contrario, fare riferimento al suo ingombrante predecessore per poter essere degna di attenzione, come un figlio che non riesce ad affrancarsi dalla figura prepotente di un padre affermato ed esigente. Pensandoci bene, è il destino riservato a tutti gli spin-off da quando esistono gli spin-off.

CONCLUSIONE

Per parafrasare Nick Anderson, giocatore degli Orlando Magic degli anni ’90 che si espresse in modo poco lusinghiero sul ritorno di Michael Jordan in NBA, Saul Goodman è un personaggio indimenticabile, mentre Jimmy McGill è soltanto un buon protagonista. Ma il mio giudizio è irrimediabilmente viziato dall’amore che provo per BB (e di cui ho scritto qui qualche tempo fa). Non resta quindi che aspettare l’arrivo della seconda stagione per trovare una conferma alle mie parole oppure, speriamo, per essere spudoratamente smentito.

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Nebraska

Anno: 2014nebraska

Di: Alexander Payne

Con: Bruce Dern, Bob Odenkirk, Will Forte, June Squibb

Genere: drammatico

Durata: 116’

L’anziano Woody Grant è convinto di essere in possesso del biglietto vincente di un concorso milionario ed è ostinato ad andare fino alla città di Lincoln, Nebraska, per riscuotere il suo premio. Nessun familiare, sapendo che si tratta chiaramente di un inganno, riesce a farlo desistere dalle sue intenzioni, così il suo figlio minore David decide di accompagnarlo poiché teme per la sua incolumità. Così, in un viaggio lungo centinaia di miglia dal Montana al Nebraska, Woody rivede i luoghi in cui era vissuto tanti anni prima e nelle sue tappe incontra vecchi amici e parenti, che prima o poi si rivelano interessati ad avere la propria parte di premio.

Già con A proposito di Schmidt e Sideways Alexander Payne usava il movimento dinamico del genere on the road come cornice narrativa dentro cui rappresentare la mediocrità degli uomini. Nel caso di Nebraska, il viaggio, da semplice cornice, diviene vera e propria colonna portante che spiega il fallimento di una famiglia, con un padre affetto da demenza senile che senza patemi rivela ogni sua mancanza nei confronti della prole (alcolizzato da sempre, iniziava i suoi figli al vizio del bere già in tenera età) e della moglie (tradita ripetutamente e mai realmente amata), ostinato a compiere una traversata verso un’improbabile gloria. Un viaggio, poi, che porta i due protagonisti ad attraversare il bel mezzo della desolazione della provincia americana, così gretta e sonnacchiosa, popolata da gente venale e costantemente annoiata dal nulla quotidiano. Un viaggio, infine, che mette a nudo il fallimento di un’intera generazione (anche se appena accennato, non può sfuggire il riferimento ai reduci della guerra di Corea), che ha come capofila proprio Woody Grant, personaggio incarognito dalla vita, che non avendo più nulla da dare e da fare si ritrova, malgrado il disappunto dei suoi sua cari, ad aggrapparsi alla velleità di una vincita milionaria.

Seppur elegante, il bianco e nero privo di contrasti (fotografia di Phedon Papamichael) mi aveva inizialmente lasciato perplesso, ma una volta visto il film mi rendo conto che si tratta di una scelta che si sposa perfettamente con lo stile di Payne, regista lineare e asciutto come pochissimi altri, sempre lontano da qualsiasi tipo di virtuosismo. Infatti, il connubio fotografia \ regia contribuisce a creare un affresco crudele e impietoso del Nebraska che, metonimicamente, diventa una sorta di lato B dell’America epica degli spazi aperti e delle frontiere. Nebraska, come dicevo all’inizio, presenta molti punti in comune con i suoi predecessori, compreso Paradiso Amaro, in cui si riesce addirittura nell’impresa di “normalizzare” un attore come George Clooney e compreso quel capolavoro di Election (a proposito, se non l’avete visto, recuperatelo assolutamente), acida black comedy sotto le mentite spoglie di commedia adolescenziale. Forse la vera differenza rispetto a prima sta nel tono, che stavolta vira marcatamente verso il dramma e lascia pochissimo spazio ai momenti leggeri delle opere precedenti.

Alexander Payne, con i suoi personaggi ordinari, i suoi luoghi scarni, i suoi dialoghi pungenti, si conferma uno dei più bravi registi a mettere in scena la banalità della vita. Stavolta lo fa con quello che non è il migliore tra i suoi film, ma che forse rappresenta meglio la summa della sua ormai ricca filmografia.

Voto: ●●●


2014: la classifica

Un anno fa mi ero ripromesso di arrivare preparato per la fine del 2014. L’idea era di vedermi almeno cinquanta film al cinema o comunque usciti durante l’anno in modo da poter stilare una classifica completa ed esaustiva. Missione fallita. A ogni modo qualche film, in questo 2014, l’ho guardato e una top ten può venire fuori tranquillamente. Una top ten incompleta (Nymphomaniac, Nebraska, Frances ha, Boyhood, Le meraviglie, sono solo alcuni dei titoli che per ora mi sono perso) e, soprattutto, puramente soggettiva, basata sul gusto personale, su sensazioni e pregiudizi (cos’altro può valere ad una prima e unica visione?). Una top ten discutibile, come è giusto che sia.

Eccola qua:

1) Locke: se sei l’unico personaggio presente sulla scena di un film di due ore, le cose sono due: o giganteggi o muori. Tom Hardy fa la prima cosa e ne viene fuori un capolavoro.

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2) Interstellar: lo devo rivedere di certo, però le sensazioni che mi ha lasciato una volta uscito dal cinema mi dicono che questa è la posizione che merita l’ultimo film di Nolan.

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3) Her: originale e rarefatto. Spike Jonze inventa la drammascienza.

her

 

 

 

 

 

 

4) American Hustle: grande cast per un film corale con un irriconoscibile Christian Bale e tanti attori che più glamour non si può. Un po’ dramma, un po’ commedia, un po’ Scorsese, ma tutto un po’ più leggero.

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5) Smetto quando voglio: LA sorpresa dell’anno.

smetto

 

 

 

 

 

 

6) A proposito di Davis: qui la recensione

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7) Mud: una storia di formazione a metà strada tra Huckleberry Finn e i migliori romanzi di Lansdale. Ma soprattutto una bellissima storia di amicizia vera.

mud

 

 

 

 

 

8) The wolf of Wall Street: è un filino ridondante ed eccessivo, come film, ma i suoi pregi sono talmente tanti (a cominciare dall’ennesima prova superlativa di Leo Di Caprio) che rimane uno dei titoli più memorabili dell’anno.

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9) 12 Anni schiavo: un film di rara brutalità, che affronta con sguardo lucido il tema, più che mai attuale, della discriminazione.

12 anni

 

 

 

 

 

 

10) Grand Budapest Hotel: un Wes Anderson all’ennesima potenza, attori bravissimi a calarsi nel suo universo colorato e zeppo di vezzi e dettagli. Finalmente un esercizio di stile non fine a se stesso.

 

grad bud

 

 

 

 

 

 

Menzioni d’0nore: Edge of Tomorrow (che a momenti è una cialtronata pazzesca, ma io ho proprio un debole per le storie stile Il giorno della marmotta) e La spia e Maps to the stars (che un film di Cronenberg ha sempre qualcosa di interessante).

La delusione: Pasolini.

Le serie tv che ho guardato:

True detective 

The Knick (che ho avuto il piacere di vedere in anteprima al Festival del Cinema di Roma, con Clive Owen presente in sala)

Fargo

Game of Thrones (tutte e quattro le stagioni bevute in poche settimane, con annessa scimmia dietro la schiena per l’uscita della quinta)


La spia – A most wanted man

Anno: 2014la spia

Di: Anton Corbijn

Con: Philip Seymour Hoffman, Robin Wright, Willem Dafoe, Daniel Brühl, Rachel McAdams

Genere: thriller, spionaggio

Durata: 121′

Issa Karpoff, giovane ceceno islamico, arriva clandestinamente ad Amburgo per cercare di ricostruirsi una vita e un’identità dopo le torture subite in Russia come prigioniero. Un’avvocatessa idealista cerca di aiutarlo, ma la presenza del giovane non passa inosservata ai servizi segreti tedeschi che cercano di intercettarlo perché sospettano un suo coinvolgimento con Al Qaeda. Si mettono in mezzo anche gli Stati Uniti, oltre che un ricco filantropo musulmano, anch’esso fortemente sospettato di appartenere segretamente ad un’organizzazione di stampo terroristico.

Non c’è, in questo thriller spionistico di due ore abbondanti, un inseguimento frenetico, uno sparo o un’arma sfoderata. Non c’è un innalzamento repentino dell’enfasi, né una situazione scabrosa. Non c’è azione, o almeno non in una classica accezione del termine. La spia è un film in cui la cerebralità soverchia la fisicità muscolare e diventa azione stessa. Sono infatti i dialoghi il vero e proprio fulcro della storia, dialoghi che non lasciano spazio al sentimento ma che al contrario rivelano la spietata accuratezza del ruolo della spia professionista, impegnata nella pratica quotidiana di intelligence, in un tedioso susseguirsi di soffiate, intercettazioni, interrogatori, pedinamenti, negoziazioni, rapporti da intrattenere, tracce da scoprire, trame da interpretare e sciogliere. Una professione molto poco glamour, già ritratta splendidamente nel superbo La Talpa di Tomas Alfredson (anch’esso tratto da un romanzo di John Le Carrè), film quasi gemello di questo qui. Laddove però la regia di Alfredson si fregiava di un’impronta elegante e stilizzata (pur peccando talvolta di autocompiacimento), quella di Anton Corbijn, sebbene precisa e priva di particolari sbavature, risulta difficile da identificare. Nella maggior parte dei casi una regia anonima è considerata come un limite per un film, ma in questa occasione la piattezza diventa uno straordinario punto di forza e mezzo espressivo perché è completamente al servizio di una sceneggiatura imponente e una storia complessa e spesso difficile da seguire.

Volontariamente o meno, Anton Corbijn si fa da parte e lascia procedere la storia senza intrusioni. Ma soprattutto, e questo è il suo pregio maggiore, lascia che sia il grandioso cast a sua disposizione a tenere le redini del film. Se La Talpa era quindi un film esteticamente impeccabile, La spia si differenzia per la qualità notevoli della recitazione, dove su tutti domina lui, il compianto Philip Seymour Hoffman. Corpulento e carismatico, dà vita ad una delle migliori interpretazioni di una carriera finita troppo presto, nei panni di un uomo cinico, logorato dalla vita, dai suoi superiori e dal suo stesso mestiere di spia. Sigaretta sempre accesa e bicchiere in mano, il suo Gunter Bachmann è il volto della sconfitta e della disillusione. Forte anche di un messaggio politico che non dà spazio a fraintendimenti, e che ci viene sbattuto in faccia in modo fulmineo e improvviso nel finale, La Spia è senza dubbio uno dei migliori thriller degli ultimi anni. E se non altro rappresenta il commiato di uno dei più grandi attori che siano mai esistiti.

Voto: ●●●●


Quando un film diventa una serie: il caso Fargo

IL FILMfargo

In principio c’erano i fratelli Coen, che nel 1996 raccontavano la vicenda di Jerry Lundegaard, pavido venditore di automobili che assolda due criminali per far rapire la moglie ed estorcere un sostanzioso riscatto al ricchissimo e odiatissimo suocero. Ovviamente la faccenda si complica e va a finire ben presto a puttane. In un grottesco caos di morti violente e azioni sconsiderate da parte dei personaggi, un’intuitiva poliziotta prossima a partorire cerca di risolvere il caso. Il luogo di ambientazione è il glaciale scenario del Nord Dakota, paradigma di un mondo in cui miseria morale e mediocrità sono le uniche unità di misura utili per provare a comprendere l’insensatezza dell’esistenza umana. Questo film, un ibrido tra thriller, poliziesco e commedia nerissima, consacra definitivamente i fratelli Coen (premiati sia a Cannes che alla notte degli Oscar) come registi di culto, capaci di creare pellicole con un’impronta stilistica molto personale e di altissimo livello e storie sempre in bilico tra la farsa più ridicola e la tragedia più cupa.

Non uno dei miei Coen preferiti, in realtà, ma che, dopo la visione della miniserie omonima, riesco ad apprezzare e comprendere molto molto meglio rispetto a prima.

LA SERIE

È assodato da tempo che le serie tv americane hanno raggiunto livelli di eccellenza assoluti sotto tutti i punti di vista (noi in Italia ci stiamo piano piano avvicinando, come dimostra Gomorra – la serie): scrittura solidissima, qualità registica equiparabile (se non a volte superiore) a quella  di tantissimi film, partecipazione di attori, compresi diversi premi Oscar, che dieci anni fa non ci saremmo nemmeno sognati di apprezzare in contesti del genere. fargo4

Fargo non fa eccezione. Prodotta dagli stessi fratelli Coen, questa miniserie composta da dieci episodi lunghi circa un’ora ciascuno, non è, come si potrebbe pensare, la dilatazione della trama del film del 1996, bensì è una sorta di riproposizione di una storia dai toni e dalle modalità molto simili, a partire dall’ambientazione identica a quella del film e dalla caratterizzazione dei personaggi. Già nei primi minuti veniamo introdotti nell’insulsa vita di Lester Nygaard, timido e impacciato assicuratore, vittima di una moglie insopportabile che gli rinfaccia di continuo le sue scarse doti lavorative e non perde mai occasione di sminuirlo in favore del suo brillante fratello. Il poco invidiabile contesto familiare del protagonista non è comunque peggiore della sua vita sociale e professionale. Una mattina Lester incontra per caso Sam Hess, vecchia conoscenza che lo maltrattava ai tempi della scuola e che non ha perso le sue pessime abitudini. A causa di un “misunderstanding” con l’energumeno, Lester si ritrova con il naso rotto nella sala d’attesa di un pronto soccorso, luogo in cui incontra un misterioso individuo di nome Lorne Malvo che, sentita la storia di Lester, si propone di uccidere Sam Hess. Questo cruciale incontro segnerà per sempre la vita di Lester e la noiosa esistenza della cittadina di Bemidji. Il misterioso individuo non solo scatena una lunga serie di catastrofici eventi, ma rappresenta per Lester una sorta di goccia che fa traboccare il vaso della sua frustrazione da quarantenne fallito. L’incontro provoca in lui una ribellione incontrollata e lo sfogo di una rabbia rimasta sopita per anni e che si risolve con l’uccisione (da me, e non credo solo da me, invocata dai primissimi minuti del primissimo episodio) a colpi di martello dell’odiata moglie. Quest’omicidio crea un legame ancora più saldo tra le vite di Lester e Lorne Malvo, un legame che in un modo o nell’altro ostacola e offusca le indagini dell’intuitiva agente del dipartimento di polizia di Bemidji Molly Solverson, aiutata dal timido agente Gus Grimly, le uniche due persone convinte della colpevolezza di Lester. Questo è solo il prologo, quello che segue negli episodi successivi beh…meglio non farselo raccontare.

QUANTO COEN C’È IN QUESTO NUOVO FARGO

Nei personaggi ce n’è un bel po’ per esempio: il protagonista Lester è caratterialmente molto simile a Jerry Lundegaard e, come Ed Crane, mantiene una posizione subalterna, se non sottomessa nei confronti di sua moglie; Malvo (interpretato da Billy Bob Thornton, che guardacaso è l’Ed Crane dell’Uomo che non c’era), così letale e sfuggente, è un Anton Chigurh con una pettinatura leggermente migliore; Molly è una citazione in carne e celluloide di Marge Gunderson; Gus Grimly è invece colui che probabilmente ricalca meglio l’archetipo del personaggio coeniano: buono, debole, in perenne balia degli eventi (in ogni film dei Coen non manca mai un personaggio come lui); lo stesso Bill Oswalt, con il suo disarmante lassismo ricorda tantissimo la figura dello sceriffo Ed Tom Bell.

Ma l’ombra lunga dei fratelli Coen è presente anche in aspetti più eterei, relativi a scelte di natura stilistica. Si avverte costantemente una tensione claustrofobica, sottolineata da delle musiche cupe e imperiose e degna dei migliori guizzi noir dei Nostri. Una tensione che si sublima e raggiunge il suo apice nel terribile conflitto a fuoco in mezzo alla bufera di neve dell’episodio 6. C’è poi la bellezza stordente dell’ellissi narrativa dell’episodio 8 che, con incredibile leggerezza, fa slittare avanti di un anno il racconto, consegnandoci in poche immagini il prorompente cambiamento delle vite dei protagonisti nell’immutata realtà provinciale di Bemidji; e poi, siccome ci sono anche degli sbalorditivi colpi di scena, è impossibile non menzionare la scena immediatamente successiva a questo frame. Una cosa che letteralmente leva il fiato, ma che per ovvie ragioni evito di raccontare:

lorne malvo

Il punto di raccordo narrativo di maggiore importanza tra il film e la serie è però rappresentato dall’episodio del ritrovamento della valigia da parte del magnate dei supermercati Stavros Milos, momento situato cronologicamente circa dieci anni dopo i fatti del film e da considerare un vero colpo di genio da parte degli sceneggiatori per almeno due motivi: il primo, molto semplicemente, perché in qualche modo ci svela che fine avevano fatto i soldi del riscatto; il secondo, che è anche il più importante, perché questo avvenimento evidenzia il concetto fondante che caratterizza il film dei fratelli Coen e che all’epoca ha spiazzato una buona parte di pubblico e critica, cioè l’epigrafe iniziale che recita “This is a true story”. È come se i due Fargo per mezzo di questo collegamento (sottolineato, tra l’altro, dall’inquadratura in campo-controcampo sulla strada ghiacciata e desolata), come in un lungo dialogo mai interrotto, si alimentassero e rafforzassero a vicenda, rendendo ancora più tangibile anche la realtà del loro mondo, dando così una sensazione, se non di verità, sicuramente di plausibilità alla storia, nonostante il “fardello” della finzione narrativa.

IL SENSO INVERSO

Fargo si può già considerare una pietra miliare per quanto riguarda i serial televisivi. Non è il primo telefilm ispirato o tratto da una pellicola di successo, ma è sicuramente quello che per qualità e caratura può davvero aprire la strada a molte produzioni di questo tipo. In passato siamo sempre stati abituati a “bramare” film tratti da serie tv che abbiamo amato (A-Team, Stursky e Hutch o X-Files, per citare delle trasposizioni famose e dagli alterni successi) e molto spesso ne siamo rimasti delusi perché l’opera cinematografica spesso non rispecchiava lo spirito del telefilm di riferimento, oppure era, per questioni di lunghezza, troppo condensata per essere considerata davvero “completa”. Un’operazione inversa invece permette agli sceneggiatori di sviluppare temi e aspetti che nel film restano inesplorati o comunque, sempre per un discorso legato al minutaggio, rimangono confinati ai margini della storia. Trarre una serie tv da un film è quindi un’occasione per approfondire il film stesso e allo stesso tempo inventare qualcosa di assolutamente originale, lavorare in modo più dettagliato sui caratteri dei personaggi, gestire con meno fretta situazioni e snodi narrativi, trasformare un lavoro di circa due ore e arricchirlo tramite un’esperienza più lunga ma non per questo annacquata: ed è ciò che, in modo eccellente, accade in Fargo.


Michael Clayton

Anno: 2007 m.c.

Di: Tony Gilroy

Con: George Clooney, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Sydney Pollack

Genere: thriller, drammatico

Durata: 118′

Quest’opera dell’allora esordiente Tony Gilroy, se la si vuole per forza incasellare in un genere, è un film di tipo giudiziario. Gli avvocati qui presenti però appartengono ad una razza molto particolare che è solita difendere chi, per palesi motivi, è indifendibile. Dal facoltoso cittadino che nel cuore della notte investe e omette di soccorrere, alla multinazionale che si ritrova nei guai per aver causato la morte di centinaia di persone. Michael Clayton è uno di questi problem solvers, “uno che fa i miracoli”, o più semplicemente, come lui stesso afferma durante il film, uno che si occupa di pulizie.

Stando alla trama, un giorno Michael riceve una missione dalla società per cui lavora: deve riportare all’ovile il suo collega Arthur, il quale è uscito fuori di testa nel bel mezzo di un’udienza che vedeva coinvolte una multinazionale dei prodotti chimici contro le numerose famiglie di agricoltori morti di cancro per effetto di una sostanza presente nei loro diserbanti. Arthur, contro ogni logica, salta la barricata e si mette dalla parte dei contadini mettendo nei pasticci la multinazionale che stava difendendo. Michael, suo malgrado, rimane coinvolto in questa storia e dopo l’improvvisa morte di Arthur inizia a indagare per conto suo per scoprire la verità sull’accaduto, trovando così un’occasione di redenzione anche per se stesso.

Non si può certamente dire che la parabola di Michael Clayton brilli per originalità. In fondo si tratta dell’ennesimo uomo in carriera con un mare di debiti, un matrimonio naufragato e un rapporto tutto da costruire con il proprio figlio. Discorso analogo andrebbe fatto in merito allo svolgimento del racconto: a parte il lungo salto in avanti del prologo, questo è un film che incede con una linearità talvolta disarmante e che raramente raggiunge significativi apici di emotività. Insomma, un rehab movie all’americana come ce ne sono tanti. Ma proprio nella piattezza generale del plot narrativo sembra risiedere la ricchezza di questa pellicola. Tony Gilroy, che di sceneggiature se ne intende (quel bizzarro fantathriller di stampo giudiziario che è L’avvocato del diavolo), evita molto accuratamente i cascami retorici di tanta filmografia di genere e si concentra più verosimilmente verso la graduale e liberatoria presa di coscienza umana, prima che professionale, del suo arido, perdente, protagonista e costruisce su questo un’opera che in linea generale non sorprende, che probabilmente non emoziona nemmeno, ma che ha nella sua solidità narrativa e nella sua coerenza interna la sua vera forza. A contribuire a questo esito positivo c’è un cast di primissimo ordine (Sydney Pollack, Tilda Swinton, Tom Wilkinson) e un George Clooney mai stato così convincente in un ruolo drammatico, che mette da parte il sorriso glamour e il savoir faire da spot pubblicitario e delinea nel volto del suo personaggio la maschera di una credibilissima, implodente disperazione.

Voto: ●●●


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